Sasha e Liuba, 17 e 16 anni. Marito e moglie da poco e genitori tra qualche mese. Chi li ha conosciuti racconta che stavano sempre insieme. E insieme sono usciti anche dalla chiesa: ognuno di loro in una bara bianca. Sono morti sabato scorso, ustionati dalle fiamme che hanno divorato il container in cui dormivano.
Campo nomadi di via Gordiani, al prenestino. Il giorno in cui ci vado per la prima volta è una calda giornata di agosto. Devo realizzare un servizio per il telegiornale. Si suda già alle sette del mattino. Io e Simone Trentini, l’operatore che lavora con me, dobbiamo incontrare i carabinieri di Centocelle: ci accompagnano loro, l’appuntamento è in caserma. Da lì ci muoveremo con la loro macchina.
Arriviamo pochi minuti prima delle sette, parcheggiamo e ci annunciamo. Aspettiamo che un travestito e una signora facciano una denuncia e poi è il nostro turno.
Ci muoviamo dalla caserma un’ora dopo.
La prima frase di chi ci riceve è: “ieri il ministro e oggi la stampa. Che cosa c’è dietro?”. Il giorno prima s’era scomodato Giuliano Amato. “Amato in visita al campo di via Gordiani”, si leggeva sui giornali. Promesse, speranze e strette di mano.
Tre mesi dopo Sasha e Liuba morivano in un campo nomadi in cui non c’è un estintore. Chi ha provato a spegnere le fiamme si è aggrappato all’unico filo di speranza che ha trovato. E questo filo era un tubo di quelli che si usano per innaffiare le vaschette sui balconi dei palazzi residenziali.

Quando io e Simone arriviamo a via Gordiani lui mi fa subito un cenno: non c’è bisogno che parli. Ormai ci capiamo: mi avverte che si allontana, va a girare qualche esterno. Lui fa così: per evitare che se succede qualcosa o che se c’è qualche fuori programma, poi si resta senza materiale.
Io rimango con i due agenti in borghese: se non sapessi che sono carabinieri, li eviterei. Il loro aspetto non è rassicurante. Ma anche questo fa parte del gioco.
Entriamo dalla parte dei serbi. Perché questo campo è diviso in due parti delimitate da una rete. Al centro della rete c’è un cancello. Chiuso con catena e lucchetto. Dall’altra parte della rete ci sono i bosniaci.
Il muro non se lo sono tirato su di comune accordo, le due parti.
“Quelli che stanno di qua sono più tranquilli”, mi dice uno dei due carabinieri indicando i serbi. E quindi ecco perché avevano voluto il muro: non ci stavano a mischiarsi, volevano impedire a chiunque di fare di tutta l’erba un fascio.
Quando entriamo, una macchina viene nella nostra direzione: i due, uno al volante, l’altro al posto di guida, si guardano. Frenano, accostano. E fanno segno a chi guida la macchina di fermarsi. E’ un ragazzo sui trentacinque anni. Gronda di sudore. Fa caldo, è vero. Ma si capisce che quello è un altro sudore. “Sono venuto a trovare un amico”, spiega. “Un amico, eh?”, incalza uno dei due carabinieri.
Il campo nomadi di via Gordiani è il centro di spaccio della zona. Poca cocaina – qui non girano tanti soldi – , poco crac. Soprattuto eroina. Ci vengono anche quelli iscritti al sert, come quel ragazzo. Qui si vende morte, si sa che si vende morte e si tollera.
I primi a tollerare sono quelli del quartiere. Le periferie a Roma sono anche questo: luoghi di sopportazione. Portano pazienza, le periferie.
“Uno dei motivi per cui un campo nomadi non lo trovi ai parioli è anche questo – mi spiega uno dei due in borghese – : le persone non sono capaci a sopportare, non sono sensibili ad accogliere”.

Simone intanto mi ha raggiunto. Ci accorgiamo che ci spiano dai vetri dei container, ma appena ci avviciniamo le tendine tornano al loro posto. La telecamera mette paura.

(segue….)

Categoria: Archivio

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