Diario assolutamente sincero di un indiano part-time

All’inizio fu Jo March. Credo che sia stata lei la radice di tutti i ​miei ​mali. Ribelle e sfrontata, scrittrice per passione, contestataria per carattere, di pasta buona e intuitiva, in lei devo aver proiettato tutta l’ammirazione possibile fino a farla spogliare del personaggio per trasformarla in un carne viva, guida ed esempio.

È agli atti, pare. Che io, settenne, ​arrivata all’ultima pagina di Piccole Donne, primo vero romanzo di formazione al femminile, rossa in viso e con il senso di mancanza di aria, abbia versato non poche lacrime.

Mi avvicino alla mia libreria, la mia attenzione è attratta dal dorso di un volume. Lo tiro fuori dallo scaffale, lo osservo, mi colpisce subito la copertina. Non l’ho letto, no. Ancora no. Lo muovo tra le mani, una vecchia abitudine, come se dei libri dovessi tastarne il peso, la dimensione, la sostenibilità. Diario assolutamente sincero di un indiano part-time. Forte, penso. Leggo il pubblico di destinazione: ​l’età non fa per me. Decido che non mi interessa, lo apro istintivamente e mi immergo nelle prime righe.

“Tu leggi come i bambini”

Dal battesimo di Louise May Alcott ci sarebbero voluti non pochi anni e varie letture ​prima che un collega, che con me condivideva il primato di essere tra i più giovani della redazione giornalistica in cui militavamo, sorprendendomi a leggere con enfasi ed emozione un articolo ben scritto e i cui contenuti – evidentemente – ​mi ​toccavano corde sensibili, mi avrebbe detto amichevolmente: “Tu leggi come i bambini“.

Un’affermazione alla quale lì per lì non diedi peso. Se non quello, leggero, di sorridere a un’osservazione mossa con simpatia. ​Sbagliavo, se si legge come i bambini, significa che si è aperti e liberi. Significa che si è vulnerabili e disponibili a essere turbati. ​Era il 1997.

È passata mezz’ora da quando le vicende dell’indiano protagonista dell’autobiografia romanzata che sto leggendo mi hanno distolto da tutto il resto. È il resoconto drammatico di un ragazzino indiano e della sua emarginazione subita ma non accettata raccontata con garbo, ironia. La fotografia di tutto quello che non vogliamo vedere né sapere messa per iscritto e destinata ai ragazzi alleggerita da​​l divertimento.

Non riesco a staccarmi da quelle pagine che si susseguono velocemente, una dietro l’altra. Mi distoglie il suono del telefono, che disturba, come al solito.

Saper raccontare il dolore

Di anni ce ne sarebbero voluti altri venti per capire che il senso di ​quei due episodi così fissi e indelebili nella mia mente non era solo nella loro ciclicità; che poter immergersi in una storia non dipende solo da te, ma anche dalla storia; che quando tutto questo succede è un regalo.​ E che se poi una storia riesce a raccontare il dolore con leggerezza, allora è un lusso vero.

Mentre avida sfoglio una pagina dopo l’altra le vicende di questo piccolo indiano part-time, ​malato e tenace, innamorato non corrisposto, vittima dei più forti ma indomito per natura, ​mi sorprendo accaldata e affannata a voler andare avanti.

Non so che faccia ho, ma so di certo che avverto la stessa identica sensazione provata leggendo Marie-Aude Murail e il suo Oh Boy, Lo sfigato di Susin Nielsen, Un ragazzo di Nick Hornby… Tutte opere che non raccontano l’ombelico dello scrittore ma la dimensione più ampia e sentita di ​un dolore che è sociale ​​e quindi di tutti.

Un dolore che è la vita e che per questo va raccontata ai ragazzi, soprattutto a loro.​ Senza paura di terrorizzarli, ma volendo loro dire, far sapere. ​

Mentre ​concludo ​questo romanzo​ inaspettato, ​provo un senso di sazietà infinito​ e mi rendo conto che ci vuole palestra e digiuno per arrivare a scrivere con uno stile per ragazzi contenuti che dovrebbero far riflettere gli adulti. E ciò mi riporta inevitabilmente a pensare al mio lavoro, a come a volte arrivano diretti e brutali contenuti che è pur giusto conoscere.

Perché nessun terremoto potrà mai essere nascosto, nessuna alluvione riuscirà mai a essere celata a lungo, nessuna violenza si potrà tacere per sempre.

​Ma saperle raccontare​ è un dovere​. E farlo bene significa sforzarsi a trovare il modo e le parole.
Ci vuole fegato e studio a usare garbo e leggerezza, ironia e dissacrazione.

Far sorridere per riflettere

Riposiziono il volume nella libreria, ma non nella sezione ragazzi. Adesso lo voglio nel reparto adulti, almeno per un po’. Perché far sorridere per riflettere è una roba grande, grandissima. Superadulta.

Significa voler ​donare il gusto antico di una lettura che è quella degli occhi lucidi e del cuore che batte.​ Quella dei bambini.

Categoria: I miei post

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